La fotografia in Africa

Con il progredire dei processi di indipendenza e decolonizzazione, nel continente africano iniziano a delinearsi le condizioni politiche e culturali per far emergere un linguaggio peculiare locale. Si sviluppa una grande attenzione per il genere del ritratto in quanto si sente la necessità di affermare la propria identità, svincolata dai paesi colonizzatori. Nel 1949 Seydou Keïta apre lo studio a Bamako (Mali) e, fino agli anni ‘70, realizza ritratti con fondali e oggetti di scena che possano essere rappresentativi della cultura e del modo di vivere locale, diventando così un noto ritrattista. Sempre nella capitale maliana, negli anni ‘60, Malick Sidibé si dedica – oltre che ai ritratti – a reportage incentrati sulla cultura giovanile di Bamako, che mostrano in modo straordinario il sentimento di entusiasmo di un paese da poco indipendente (1960). 

Si tratta di immagini non convenzionali, prive dei cliché delle fotografie del colonialismo, spesso scattate durante i concerti o nei locali notturni: "Stavamo entrando in una nuova era e la gente voleva ballare", afferma Sidibé, "all’improvviso, i giovani uomini potevano avvicinarsi alle giovani donne, tenerle per mano. Prima, non era permesso. E tutti volevano essere fotografati mentre ballavano vicini". Mentre, in Ghana, tra gli anni ‘50 e ‘60, James Barnor documenta la società di un paese in transizione verso l’indipendenza (1957). Negli stessi anni, in Sudafrica, Ernest Cole racconta per la rivista "Drum" gli orrori dell'apartheid, fino ad arrivare a pubblicarne un libro dal titolo House of Bondage (1967).